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Estratto da "Rito di passaggio"

Aggiornamento: 26 ott 2021


Le suore ci portavano alla colonia per togliersi la muffa accumulata durante i mesi invernali, ma quell’anno, a causa dei lavori di ristrutturazione nei due Istituti, maschile e femminile, ci trasferirono tutti giù alla Villa al mare da maggio a ottobre, invece che i canonici due mesi estivi, caricandoci sul torpedóne appena dopo Pasqua. Era un autobus, ma per me, quello lì in particolare, rimarrà sempre un torpedóne, lo chiamavano così le suore e così imparammo a chiamarlo noi. Mi è sempre piaciuto quel nome, anche se oggi, se lo menzionassi a un ragazzino di dodici anni, penserebbe a qualche goffo razzo fantascientifico piuttosto che a un pullman. Il trasferimento dall’Istituto alla Villa al mare, o meglio dall’orfanotrofio invernale a quello estivo, non era che un’unica tortuosa discesa da un paese di collina, quasi montagna, a mio parere dimenticato da Dio e non solo, con arrivo a pochi, ma lunghissimi metri dalla spiaggia. Lo aspettavamo tutti con ansia quel viaggio verso una prigione più lasciva e più calda, anche se la metà di noi sapeva di doverlo affrontare con gli occhi chiusi e le mani sulla bocca per cercare di non vomitare o quantomeno tentare di contenere la colazione appena fatta. Nessuno di noi era abituato a viaggiare con alcun mezzo di trasporto, e l’odore dei vecchi sedili di stoffa ammuffita e i tornanti di quella strada erano un test impegnativo anche per lo stomaco più forte. Almeno un paio di volte durante il tragitto l’autista doveva accostare per far rotolare fuori dal torpedóne il vomitatore di turno. Una delle rare occasioni in cui a nessuno di noi importava di essere visto in difficoltà, magari carponi sul prato, dal resto del nostro bus. Non c’era umiliazione, anzi suscitava forse una timida parvenza di empatia e sicuramente una profonda gratitudine per l’imprevista pausa concessa al gruppo, che grazie al sacrificio di uno poteva godere dell’aria fresca che finalmente entrava dalla porta aperta del bus e si gelava sulle fronti sudate dei tanti. C’era però sempre il rischio che anche quello dell’Istituto femminile si potesse fermare dietro al nostro e a quel punto, il tuo esordio in società sarebbe stato in ginocchio con lo sguardo basso su una torta giallastra sul verde saturo dell’erba. Dopo un inverno apatico passato tra maschi ad aspettare quel minimo di promiscuità estiva, nessuno voleva essere il pasticciere sul prato e non mi vergogno ad ammettere di aver più volte ingoiato, con estremo dolore, il rigurgito acido che mi risaliva in gola. Erano mesi che per incontrare le ragazze dovevamo aspettare le messe domenicali e quella parentesi estiva era un’oasi di quasi normalità, per qualcuno di noi una breve riunione famigliare con le sorelle ospiti nell’Istituto femminile.



 

«Te l’ho già detto cosa è successo», si giustificò lui. «Rimane il fatto che siamo senza cibo.» «Questo è vero…» mi diede finalmente ragione Mia. Era ormai buio pesto. Uno strano rumore, appena percettibile, arrivava dai limiti del bosco appena sotto di noi. Ci alzammo tutti per andare all’ingresso della torre. Il verso si fece lentamente più forte. Si stava avvicinando. Sembrava una voce stridula. Una moltitudine di voci. Per fortuna la sentimmo tutti e quattro, perché oggi farei fatica a capire se è accaduto veramente o se è stata un’allucinazione. La paura, i lupi, i cacciatori, lo stress di quei giorni stavano forse influenzando più di quanto potessimo immaginare le nostre giovani menti suscettibili. E non sarebbe stata l’ultima volta. Molto di quell’estate è fi nito in un limbo tra realtà e mito. «Corvi?» propose, o forse domandò, Indy. «I corvi fanno questo verso?» chiese Mia. «Sanno imitare molti suoni», spiegò Indy. «E questo dove lo avrebbero sentito secondo te?» chiese Nero preoccupato. «Soprattutto, quanti sono? Mi avete convinto, andiamocene da qui… appena farà mattina, però!» dissi senza vergognarmi del tremolio nella voce.

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